Scrivono di lui

FUGAZZA STEFANO

Peripezie di carta. L’opera di Bruno Sapiente

  1. Premessa

Il caso di Bruno Sapiente è quello di un artista vissuto in contesti differenti, nel Nord e nel Sud Italia, riuscendo a mantenere intatta la sua originalità, senza stabilire rapporti stretti con le scuole o le tendenze con le quali veniva di volta in volta in contatto. Questo non dipende da una sua aristocratica riservatezza, o da una qualche forma di orgoglio che gli inibisca la condivisione di ideali sviluppatisi negli ambiti culturali in mezzo ai quali è venuto a trovarsi; si tratta piuttosto di una questione di coerenza e di una decisa insofferenza nei confronti di conventicole o di tendenze locali prive di una sostanziale ragione d’essere al di là del caso o della convenienza. Considerando il suo percorso artistico ed umano bisognerà dunque tener conto di tale sua programmatica condizione, che comporta anche una certa dose di isolamento, sulla base di una solitudine sentita non come condizione ideale ma come la conseguenza, peraltro non inevitabile, di una scelta di rigore e di fedeltà al proprio immaginario.

  1. Il travaglio della formazione

Quel che si diceva, un certo disinteresse da parte di Sapiente nei confronti dei luoghi nei quali gli capita di lavorare trova conferma sin dagli inizi, sin dagli anni della formazione. Egli infatti, nato a Pavia nel 1946, non dimostra nelle sue prove d’esordio una qualche forma di rapporto con le espressioni artistiche consuete di quel territorio, inevitabilmente sospese, negli anni Sessanta, tra sopravvivenze naturalistiche e spinte in direzioni sempre più innovative, in relazione con gli svariati e talora confusi movimenti con cui anche in arte si tentava in quegli anni, anche in provincia, di svecchiare un panorama alquanto sclerotizzato. E’ significativo il fatto che nelle due mostre inaugurali della sua carriera, nel medesimo 1972, un Sapiente ventiseienne presenti, nella città natale, una serie di ritratti femminili fortemente stilizzati, un po’ alla maniera di Virgilio Guidi, e a Venezia, alla Galleria “Ca’ d’oro”, opere in cui, su uno sfondo di matrice informale, risaltano figure, ancora fortemente stilizzate, di vecchi, visti di spalle quasi per accentuarne il senso di solitudine. E’ come se un certo patetismo insito in simili raffigurazioni si trovasse a fare i conti con una ricerca di maggiore sobrietà, pur se sulla base di un aggancio, per quanto labile, con il linguaggio figurativo. E tuttavia subito dopo il ricorso all’immagine tradizionale viene meno, come si verifica già alla successiva personale del 1973, alla “Cherry Gallery” di Bologna, in cui il termine di riferimento diviene un espressionismo vagamente morlottiano.

Con tutta evidenza sono ricerche, queste prime, che permettono all’artista di mettersi alla prova e di reagire, sulla scorta della sua preparazione culturale e degli orientamenti del suo vissuto, a una situazione generale priva di chiarezza, oltremodo variegata e tale da creare incertezza e disorientamento. Eppure, e questo è un dato da sottolineare con forza, basta poco tempo a Sapiente per individuare una cifra sua, personale che, variamente perfezionandosi, rimarrà un dato permanente.

Infatti, quando Sapiente, dopo una pausa di riflessione, torna ad esporre, e lo fa nel 1978 con una personale alla Galleria “Palladio” di Vicenza, troviamo un artista mutato, trasformato dalle ricerche condotte silenziosamente negli anni precedenti. Una certa propensione per l’informale ha lasciato il posto a una scelta definitiva a favore della geometria e del rigore, per cui ci troviamo di fronte a composizioni,  a olio o a tecnica mista, in cui le forme si sono fatte nitide, definite da campiture cromatiche pure, talora in una prospettiva vagamente ludica o decorativa.

  1. Ansie sperimentali

Questa scelta a favore del rigore si riscontra anche nella fase più propriamente sperimentale di Sapiente, successiva al trasferimento da Pavia a Piacenza, avvenuto nel 1977, e che coincide con  uno spazio temporale piuttosto stretto, tra il 1979 e il 1981. Una manciata di anni in cui, non venendo meno la pittura vera e propria, l’artista realizza una serie di sculto-pitture (a un certo punto definite da Sapiente stesso “oggetti inutili”) che riproponevano la poetica dell’oggetto, in quanto consistenti in latte, o un panno, o altro, su cui era stato fatto colare del gesso bianco in modo da ottenere il trasferimento a una dimensione altra, lontana dal reale, metafisica (1). Una personale alla Galleria “città di Piacenza” di Piero Genocchi, nel 1980, dà conto di questa produzione fondata su valori quali l’essenzialità, il contrasto tra il bianco e il nero e, ancora prima, il ricorso all’oggetto trovato, al suo recupero e  riuso.

Si situano su una linea  lontana da questa, anche per il prevalere di un’intenzione ludica, certe sculture che Sapiente realizza vari anni dopo, anche se rimane valida l’idea del riuso. Polifemo (1997, in legno di rovere, ferro e chiodi vecchi) consiste in un trave recuperato, ripulito, lavorato, a cui vengono aggiunti vecchi chiodi (uno a significare l’occhio di Polifemo) e una base metallica di appoggio. Autoritratto intimo (1998, in legno di rovere e acero, ferro, oro in foglia, cere) si premette qualche allusione ironica.  

  1. La poetica del frammento

L’abbandono delle sculto-pitture avviene piuttosto presto, come si è detto, forse anche perché intanto Sapiente riscopre le potenzialità insite nella grafica e anche, probabilmente, in quanto non ritiene più sostenibile il sacrificio del colore, realizzando quelle opere col mero ricorso alla dualità bianco-nero. Siamo nei primi anni Ottanta, ancora connotati dalla voglia di tentare strade diverse, pur se salvaguardando scelte compositive nitide, sempre connotate dall’eleganza e dall’essenzialità. Sono gli anni in cui si fa strada una poetica del frammento in fecondo dialogo con alcune forme della ricerca artistica italiana, per cui Sapiente interviene su un’immagine preesistente (vecchia stampa, fotografia, inserto a collage di una carta quale una carta d’arancia o l’involucro delle sigarette e così via).  Su tali basi si dispongono poi gli interventi diretti, di carattere grafico e/o pittorico: come in una tecnica mista del 1985, Mare-Cielo, basata su un frammento di fotografia accompagnato dalla compresenza di elementi quali il colore (qui un colore tenue, di sostanza quasi lirica), il segno (qui, una trama di righe parallele) e la scrittura. Con questa, e con simili opere (2), Sapiente dimostra anche una buona capacità di aggiornamento culturale, come del resto nota il critico piacentino Mario Ghilardi in un importante articolo del 1986 in cui si accenna anche alle suggestioni della cultura artistica americana: “Sapiente realizza un universo di magie creative con una tecnica sua che è il risultato di dense esperienze e di riflessioni continue (basta osservare come egli non venga trascinato dall’azzardo dello sgocciolamento del colore ma come invece lo controlli e lo rivolga ad esiti sicuri). Con una tecnica sua e con una sensibilità giovane che dice parole di speranza nella vita” (3).

Alla fine di questo decennio che, visto con uno sguardo retrospettivo, può apparire anche un po’ confuso, Sapiente si impegna in alcune performances che attestano come egli intenda il fare artistico non solo come lavoro soggettivo, poi sottoposto al confronto con la critica e all’attenzione del pubblico, ma anche come promozione culturale in senso più ampio, con una volontà di coinvolgimento che vuole trascendere i confini e i limiti consueti. E dunque nel 1989 l’artista dà vita, in collaborazione con Eugenio Rebecchi, a un’azione scenica dal titolo “Ho trovato l’ago nel pagliaio”, prospettata come una specie di ricostruzione animata del noto detto, in realtà pretesto per dare vita a una ricerca giocosa e surreale, occasione di incontro tra le persone e di riflessione  anche sui meccanismi comportamentali. Altro happening l’anno successivo, il 1990, ancora una volta in collaborazione con Eugenio Rebecchi, in cui il pubblico viene coinvolto in un’azione scenica multimediale che ha luogo nell’ex oratorio di Caratta di Gossolengo (Piacenza). In questo caso, il tema di fondo è costituito dalla carta, a partire dalla quale si passa attraverso momenti diversi, con un’accentuazione di carattere ludico e dissacratorio (4).

  • L’approdo definitivo

Si arriva così, attraverso una varietà di esperienze e di passaggi, a una fase ultima, i cui sviluppi sono tuttora in corso, e che ha tutta l’aria di prospettarsi come definitiva. Una fase la cui prima, importante verifica si ha nella mostra che si tiene alla Galleria “Atheneum” di Parma nel 1991, con l’ausilio di un libro-catalogo con testi di Marc Le Cannu, Gianni Cavazzini ed Eugenio Rebecchi. Si crea allora un “sistema complesso” – è  proprio il caso di usare questa  espressione – che costituisce la summa della lunga, a questo punto, attività artistica di Sapiente; un sistema aperto, disponibile ad accogliere innumerevoli varianti ma nella sostanza definito; in qualche modo, come si diceva, definitivo.

Cerchiamo allora di definire questo raggiungimento dell’artista nei suoi termini comuni, rimasti invariati pur nel passare degli anni. La superficie del dipinto (il supporto è la tela, spesso la carta) diviene lo spazio di un incontro tra elementi diversi, chiamati a collaborare, a compenetrarsi e, qualche volta, a contrapporsi, ma nell’insieme a farla da protagonisti, sulla base di una visione che sottolinea fortemente l’autonomia dell’oggetto artistico rispetto alla realtà, la sua  radicale alterità. Questi elementi sono, sul piano tecnico, oltre che il supporto stesso, una serie di sottilissimi fogli, di veline che vengono variamente sovrapposti, in modo tale che si crea talora un certo risalto, un certo spessore materico, la matita e il colore. Con le sottilissime carte e la matita l’artista dà vita a delle forme, spesso ad accenni di un elaborato panneggio, sopra il quale si inseriscono linee rigorose, nettamente squadrate, che vengono ad interrompere in qualche modo la potenzialità di espansione dell’immagine, ravvivata a sua volta da un frammento di colore, talora allusivo del cielo, e dunque in qualche modo di tutto ciò che sta al di fuori della pittura, anche la vita vera che circola nell’aria e sopra la terra (tale frammento viene inteso da Gianni Cavazzini nel 1991 come una finestra rivelatrice, il simbolo dell’emergere insistente di una pulsione istintuale: quasi la prova che la conoscenza è una via più poetica che razionale). 

Coglie bene questo momento il critico Enio Concarotti, che nel 1993, in occasione di una personale dell’artista all’Italian Community Centre di Londra, vede Sapiente “inoltrarsi in un mondo fantasticamente evanescente con un delicato e sospeso passo un po’ incantato i splendori e stupori spaziali in cui vibrazioni, sensazioni, dissolvenze e vaghezze di colore che sembrano in attesa di diventare musica. Questo procedere in pura area informale mantiene, comunque, una memoria della forma che può far balenare e sollecitare intuizioni e visioni di connotazioni figurative quali un drappeggio, parti del corpo umano, un paesaggio, un passaggio di nuvole nel cielo, un gorgo di vento” (5). E’ anche interessante, nel brano citato, il riferimento alla musica, a confermare la vocazione di quest’arte in una direzione staccata da presupposti referenziali nei confronti del reale e sempre più attestata su una ricerca di autonomia.

Negli anni successivi, come si diceva, il sistema che si è indicato ha modo di perfezionarsi, di variare  singoli aspetti del suo linguaggio ma non di mutare la sostanza del suo discorso poetico ed estetico. Per esempio a un certo punto, lungo gli anni Novanta, si assiste a un processo di purificazione per cui scompaiono i frammenti di cielo e il fitto intreccio del panneggio domina incontrastato, contagiando buona parte della superficie che risente delle alterazioni prodotte dalle sovrapposizioni cartacee e dalle scelte, spesso assai raffinate, dei colori.

In altri casi, in anni più recenti, come nelle opere esposte alla bella personale presso il Collegio universitario Cairoli di Pavia nel 2003, tocca al panneggio arretrare, a tutto vantaggio della geometria delle forme, le quali la fanno da padrone, poste sotto il segno di un bilanciamento prezioso, di un contrappunto variato e inesauribile. Nel caso della mostra pavese, ai mezzi tradizionali che abbiamo già più volte citato, si aggiunge la fotografia, chiamata a rendere ancora più verosimili gli inserti in cui si vede un panneggio, elemento figurativo costante, da un certo anno in poi, come si è visto, della visione di Sapiente.

E’ da dire comunque che il rigore che connota così tanto l’opera di questo artista, e che ha accompagnato tutto il suo percorso, annunciandosi già a chiare lettere sin  dalle prime prove, non risulta mai fine a se stesso, mai dando vita a soluzioni di freddezza compositiva, secondo prospettive che siano paragonabili, ad esempio, con l’optical art. La precisa decantazione formale, secondo un’intelaiatura dai confini rigorosi e squadrati, convive sempre, infatti con un sentimento assai vivo dell’imprevedibilità dei casi, cui alludono, di volta in volta, certe lacerazioni nel tessuto della composizione, o una nota erratica di colore, o un imprevedibile inserto con il motivo del panneggio, o un venir meno – in un punto piuttosto che in un altro – della separazione netta tra le parti. Insomma, il discorso che porta avanti questo artista, piacentino di adozione ma così poco legato ai linguaggi e ai motivi del territorio in cui da tempo ha scelto di vivere, è abbastanza chiaramente sospeso tra questi due estremi, e da ciò trae proprio uno dei suoi motivi di maggiore forza e fascino: da una parte un’esigenza di controllo lucido, razionale, frutto di una mai dismessa rielaborazione intellettuale; dall’altra il bisogno di una libertà insofferente dei limiti e aperta alla fantasia. In questa dialettica si manifesta tutta la creatività di Sapiente, il quale fa non poco conto della libera, appunto, capacità interpretativa da parte dell’osservatore, come già ben riconosceva nel 1993 Enio Concarotti, scrivendo dell’inesistenza, trattandosi dell’opera di Sapiente, di una “freccia indicativa” o di un “codice di lettura” preordinati: “Ognuno affronta l’opera con propria sensibilità e ricchezza fantastica”. Sono indicazioni che valgono, naturalmente, per quasi tutti gli artisti, o per tutti; ma nel caso di Sapiente, di fronte a una produzione che ha così risolutamente tagliato i ponti con qualsiasi presupposto  naturalistico, si fa più evidente la necessità di un coinvolgimento da parte del fruitore, chiamato a uno stimolante lavoro di lettura e di decodifica. Per questo la pittura di Sapiente (la chiamiamo così, pittura, per comodità, ma ci rendiamo conto che non è il termine più appropriato, di fronte a una tecnica così personale e originale), si presta a interpretazioni diverse, anche lontane tra loro; si presta a suggerire stati d’animo ed emozioni e sensazioni differenti. Noi, da parte nostra (sia lecito il rinvio), in occasione della personale del 1993 al castello Anguissola di Travo, scrivevamo di tale disparità di significati: “Qualcuno potrà leggere queste opere come degli sguardi posati dall’alto, da altezze vertiginose e siderali (tale appare a volte la nostra terra ripresa dai satelliti, con le increspature dei fiumi e delle montagne e i violenti contrasti cromatici) oppure come dei tentativi di trascrivere le emozioni, offrendo loro una forma: emozioni più soft, quasi trasalimenti dell’anima che esigono colori tenui e linee più morbide e avvolgenti, oppure altre che fanno sobbalzare, che sembrano dovute a improvvise lacerazioni, a immedicabili ferite. […] In certi casi, i contorcimenti dei panneggi sembrano alludere ai tormenti dell’eros, alle vibrazioni di sentimenti che, stanchi di essere solo pensati, esigono una specie di traduzione fisica, una qualche sorta di appagamento. In altri casi ancora, si ha l’impressione che Sapiente voglia alludere, da artista colto qual è, alla tradizione che lo ha preceduto, e che abbia scelto un motivo tipico della storia dell’arte – il panneggio, banco di prova di tanti pittori, di tanti scultori del passato -, isolandolo dal contesto ed eleggendolo a motivo conduttore della sua opera, fonte di innumerevoli varianti, di nuovi imprevisti significati” (6).

Il fatto che Sapiente abbia conseguito un suo linguaggio e un suo stile non significa però che egli si ritenga appagato e che rinunci a ulteriormente indagare, accontentandosi di una ripetizione di formule ormai definitivamente acquisite. Non è da lui un simile atteggiamento, non sarebbe compatibile con il suo essere una così tranquilla condiscendenza. La ricerca, una ricerca sempre inappagata e accompagnata talora dal tormento, sempre dall’insoddisfazione creativa, è connaturata al suo fare artistico, per cui dobbiamo aspettarci ulteriori varianti, semplificazioni e complicazioni all’interno di quel sistema complesso che abbiamo cercato di definire. Di una cosa possiamo essere sicuri: che Sapiente continuerà a concepire il suo lavoro come confronto continuo, come scoperta faticosa ma rigenerante, oltre che come applicazione quotidiana non insensibile al piacere tattile del fare e alla dimensione artigianale. Perché, se è vero che egli si è mostrato interessato, nel corso della sua carriera, all’happening e a forme d’arte fondate sulla manifestazione estemporanea, slegata dalla produzione di un oggetto, è altrettanto vero che ha voluto salvaguardare, soprattutto, l’idea di arte come realizzazione, come creazione di qualcosa che è destinato a durare e a offrire un’interpretazione sensibile e aderente della modernità.

  1. Per questa fase della produzione dell’artista si veda Eugenio Gazzola, Tra bianco e nero, in Stefano Fugazza, Eugenio Gazzola, Bruno Sapiente, Piacenza, 1998, pp. 5-11.
  2. Alcune di queste opere sono riprodotte in Fugazza, Gazzola, op. cit., Piacenza, 1998, pp. 12-14.
  3. Mario Ghilardi, Aria internazionale nella pittura di Sapiente, in “Panorama Piacentino 1986”, pp. 31-33.  
  4. Queste due che si sono indicate, e altre simili esperienze di Sapiente, fanno riferimento alla sua attività di vero e proprio operatore culturale, assolutamente libero e sganciato da conventicole di qualsiasi natura. Da questo punto di vista incontriamo Sapiente come organizzatore di una mostra di giovani artisti nel castello di Travo (Piacenza) nell’estate del 2000 e di una mostra a tema, tenutasi a Piacenza tra il dicembre 1996 e gennaio 1997, dal titolo “Under 30”.
  5. Enio Concarotti, Bruno Sapiente a Londra, in “Libertà”, 27 maggio 1993.
  6. Stefano Fugazza, Il divenire dell’immagine, in Bruno Sapiente. Opere recenti, catalogo della mostra al castello Anguissola di Travo, Piacenza, 1998.